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Varie sfumature di Giappone – What’s Izakaya?

L’ultimo locale in ordine temporale progettato dal nostro studio, attualmente in fase di ultimazione, sarà un Izakaya, una tipologia autentica di locale giapponese ad oggi ancora inconsueta da trovare nella nostra penisola (eccetto alcune eccezioni). Oggi in attesa che il progetto venga terminato e svelato vogliamo descrivere le caratteristiche principali che contraddistinguono un autentico Izakaya da un generico locale giapponese.

Il termine izakaya deriva dalle parole “I” per sedersi e “sakaya” per negozio di sake, quindi il termine si traduce approssimativamente in “seduto nel negozio di sake”.

Gli izakaya sono però molto più di un semplice bar giapponese: in Giappone vengono tradizionalmente serviti piccoli piatti per godersi l’alcol, che non sono in alcun modo inferiori ai piatti dei ristoranti giapponesi in termini di qualità e aspetto. Qui i viaggiatori possono provare varie delizie culinarie e farsi un’idea della cucina giapponese.

Per poter provare quanti più piatti possibili, di solito vengono servite piccole porzioni, che vengono condivise tra loro. Pertanto, gli izakaya sono spesso indicati come “tapas bar giapponesi”. 
In origine erano dei ristoranti rustici molto piccoli, spesso non più grandi di un accogliente soggiorno. All’inizio si trovavano principalmente nei quartieri popolari. I lavoratori si incontravano lì per concludere la lunga giornata bevendo e mangiando insieme. La sensazione del soggiorno e l’intimità si riflettono anche nel togliersi le scarpe, cosa non insolita in una lunga serata nell’izakaya.

Un izakaya tradizionale reso celebre dai film di Kill Bill, ad esempio, si può ammirare a Tokyo: il Gonpachi Nishi Azabu in stile Edo (Kill Bill vol1 – massacro degli 88 folli).

Tokyo - Gonpachi Nishi Azabu
Scena Kill Bill Vol.1

Il bar giapponese Izakaya sta godendo di una crescente popolarità non solo in Giappone, ma anche a livello internazionale. Da New York City a Berlino a Sydney, i pub giapponesi stanno aprendo, sia in design rustico tradizionale che in varianti moderne.
Per quanto riguarda il nuovo locale da noi progettato non resta che aspettare qualche altro giorno per svelarlo.

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*** NEWS *** Brushstroke House

La Brushstroke House nasce dall’idea di fondere insieme la tradizione architettonica lettone e il design contemporaneo, con l’intento di generare una forma che si modella con dinamismo verso il panorama e il lago.
Il concept iniziale riprende la forma originaria lineare dei due corpi di fabbrica, che in pianta sorgono parallelamente l’uno con l’altro.
Questi corpi vengono mutati e piegati così da donare ai lati corti del blocco architettonico, una vista privilegiata verso il panorama e il lago.

I DUE VOLUMI:
Il complesso si compone quindi di due corpi di fabbrica:
– Il corpo che ospita il painters’ worshop e il carpentry workshop, composto da un solo piano, e sorge più vicino al lago
– il corpo che ospita le due residenze composto da due piani, che sorge parallelamente dietro al corpo più basso.

LA PIANTA ARCHITETTONICA:
La pianta architettonica è stata ideata per posizionare gli spazi maggiormente vissuti dagli artisti, in adiacenza con il panorama, alimentando in tali spazi una forte componente visiva naturalistica.
Infatti secondo la nostra visione un artista non produce opere solo dentro al suo painters’ workshop, ma è più probabile che l’ispirazione venga negli attimi vissuti in casa, contemplando il panorama e la natura.
Per questo motivo le zone living delle due residenze, e il painters’ workshop hanno una vista totalmente vetrata e più possibile aperta verso il panorama.

[CONTINUA SUL PROGETTO]

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INTELLIGENZA ARTIFICIALE – Volcano Rainland Retreat

Abbiamo sperimentato le potenzialità dell’intelligenza artificiale dando in pasto ad un’IA i tratti salienti di una nostra personalissima ed ipotetica villa dei sogni, con risultati più che discreti:

Direttive del prompt:

Forma esterna(1° render):

– Forma in stile contemporaneo/parametrico (priva di angoli e copertura tradizionale)

– ampie vetrate aperte al panorama alternate ad aree della villa con interni totalmente chiusi e blindati verso l’esterno

– ingresso pedonale con ampia scala 

-ingresso carrabile uscente dall’interrato con rampa carrabile nascosta dalla forma stessa della casa

 

Interni (2° render):

– Grande divano con lungo fireplace minimalista (il fireplace si poteva fare meglio)

– Pavimenti, muri e Mobili scuri con ampie vetrate

– grandi librerie, illuminazione indiretta con soffitto (tetto) in vetro (?)

Contesto esterno: Terreno isolato da tutto con vista su un vulcano attivo e in un luogo con meteo costantemente in uno stato pre-temporalesco e temporalesco

Volcano Rainland Retreat - www.dahliastudio.com

 

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IL “VERDE” NON IPOCRITA – La tecnica del Rammed Earth

Iniziamo oggi questa nuova sezione di sensibilizzazione dove esporremo tecniche costruttive e filosofie di progettazione sostenibile NON IPOCRITA a noi care.

La tecnica del Rammed earth, nota anche come Pisé, è una tecnica di costruzione che utilizza terra cruda compressa per creare muri e strutture resistenti e durevoli. Utilizzata in tutto il mondo per secoli, particolarmente diffusa in aree aride e desertiche dove l’acqua e il legno sono scarsi.

Il processo di costruzione del pisé inizia con la preparazione del terreno. La terra viene raccolta e miscelata con acqua e altre sostanze naturali come paglia o argilla per creare una miscela resistente. Questa miscela viene poi compressa in strati di 10-20 cm con l’uso di una pala e un battipalo. Dopo ogni strato compresso, il pisé viene lasciato asciugare e indurire per diversi giorni prima di procedere con il successivo strato.

Uno dei vantaggi principali del rammed earth è la sua durabilità e resistenza. I muri possono durare per secoli e offrono un’ottima protezione dalle intemperie e dai cambiamenti climatici. Inoltre, la tecnica del pisé è considerata molto sostenibile e a basso impatto ambientale, poiché utilizza materiali naturali e non richiede molta energia per la costruzione.

Un altro vantaggio significativo della tecnica del rammed earth è la sua elevata massa termica: come il mattone o il cemento, assorbe il calore durante il giorno e rilascia calore durante la notte. Questa azione modera le variazioni di temperatura giornaliere e riduce la necessità di aria condizionata e riscaldamento.

Tuttavia, la tecnica del pisé richiede una grande abilità e attenzione ai dettagli per ottenere una struttura resistente e duratura. La preparazione della miscela di terra deve essere precisa e la compressione degli strati deve essere uniforme per evitare la formazione di crepe o fessure.

 

 

A livello estetico e cromatico dobbiamo rilevare che le pareti in terra battuta hanno il colore e la consistenza della terra naturale. Le finiture impermeabili all’umidità, come l’intonaco cementizio non vengono utilizzate da alcuni costruttori perché compromettono la capacità di un muro di desorbire l’umidità, qualità necessaria per preservarne la resistenza.
Secondo il nostro punto di vista un’autentica parete in pisè è visivamente apprezzabile e appagante poiché risultano visibili tutte le stratigrafie della terra compressa che generano un effetto multicolore sulle sotto-cromie della terra. Queste pareti possono anche essere illuminate con luce di taglio effetto wall washing generando una contrapposizione tra l’effetto naturale-ancestrale della parete e l’aspetto contemporaneo della luce led.La tecnica del rammed earth rientra tra le tecniche di costruzione realmente sostenibili, ancora scarsamente utilizzate e sicuramente non ipocritamente green.
Gli edifici di terra battuta sono più sostenibili e rispettosi dell’ambiente rispetto ad altre tecniche di costruzione che utilizzano più cemento e altri prodotti chimici. Gli edifici in terra battuta utilizzano materiali disponibili localmente, di solito hanno una bassa energia incorporata e generano pochissimi rifiuti.

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The Tucson Mountain Retreat - DUST Studio

La guerra del Nero e la proibizione del Rosa

Dopo aver fatto le nostre considerazioni sul “Nero” (leggi articolo: http://dahliastudio.com/nero/ ), oggi pubblichiamo un simpatico aneddoto, che il nero ha scatenato tra artisti di fama internazionale

Era il 2014 quando dalle pagine della rivista scientifica ACS-Applied Materials and InterfacesBen Jensen pubblicava il suo lavoro su Vantablack, l’allora materiale più scuro al mondo, in grado di assorbire il 99,965% della luce incidente.

Il Vantablack non nasce per scopi artistici, ma nasce come una sostanza prodotta dalla Surrey Nano Systems, sviluppata e brevettata dalla Nasa per scopi militari con prospettive di impiego nei settori aerospaziali e della difesa. Una sostanza che assorbe talmente tanta luce, tanto da impedire all’occhio umano di rilevare il tipo di ombre che aiutano il cervello a interpretare la forma di un oggetto: un pezzo spiegazzato di carta stagnola coperto con uno strato di questa vernice appare quasi completamente piatto.

Con la nascita di questo nuovo “estremo colore” entrò in gioco la figura di Anish Kapoor artista di fama internazionale, che nel marzo 2016 acquistò il brevetto del Vantablack, proibendone praticamente a tutti l’utilizzo.

Il fatto che lo studio di Kapoor fosse l’unico a poter usare questo nero creò molte polemiche nel mondo dell’arte: uno dei più critici fu l’artista britannico Stuart Semple che dichiaró:

Anish Kapoor è come quei bambini che alle scuole elementari non volevano condividere i colori con gli altri. E che presto finivano da soli e senza amici con cui giocare”. 

Oltre alla dichiarazione Stuart Semple decise di non stemperare la polemica, anzi rilanció, aprendo una vera e propria guerra del colore, commercializzando un nuovo colore estremo il Pinkest Pink, il rosa più rosa.

Ma attenzione: il colore di Semple poteva essere utilizzato da tutti, meno che da Kapoor. Anzi i clienti che sono interessati (tutt’ora) ad acquistare il nuovo colore sul sito di Stuart dovranno rilasciare una dichiarazione legale nella quale chiariscono che “non sono Anish Kapoor, non sono in nessun modo collaboratori di Kapoor, non stanno comprando il prodotto per Kapoor o in associazione con Kapoor”.

Fine della partita? 

Nemmeno per sogno!

A distanza di pochi giorni Anish Kapoor rispose sul suo profilo Instagram con una “semplice” foto del suo dito medio, immerso nel colore che gli era stato proibito… Il famigerato Rosa più Rosa.

Da qui nacque una vera e propria gamma di colori creata da Stuart Semple e proibita ad Anish Kapoor, gamma che comprendeva anche una versione ricreata del Vantablack, chiamato Black3.0, un acrilico nero molto opaco che comunque non superava il livello del Vantablack!

E allora alla fine da chi è stata vinta la guerra?

Noi diremo da entrambi, da Kapoor per aver ulteriormente rilanciato la sua fama artistica internazionale ma anche da Semple che ha cavalcato questa guerra per commercializzare massivamente la sua linea di colori (acquistabili facilmente sul suo sito)

Il vero estremismo del nero invece ha visto altri vincitori per lo meno fino ad ora!

Ad oggi, il primato che prima spettava a Vantablack, se lo aggiudica un nuovo materiale, ben 10 volte più scuro. Quest ultimo, per il momento denominato Blackest black, è costituito da nanotubi in carbonio allineati verticalmente (CNT) come Vantablack, ma cresciuti come fili d’erba su di un foglio di alluminio inciso al cloro. Blackest black è in grado di catturare al minimo il 99,995% di una qualsiasi luce incidente, ingannando la mente con una particolare illusione ottica.

In attesa di possedere e testare tutti questi colori, restiamo convinti che la vera guerra del nero non finisca qui!

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Architettura, Matthew McConaughey e l’importanza di dire NO

Spesso per crescere, si deve essere disposti a cercare insegnamenti anche in campi totalmente distanti dalla sfera della nostra attività e del nostro interesse.

Questo è il caso dell’articolo odierno che vuole fare luce sull’importanza del No, rispetto al si, l’importanza di selezionare, l’importanza di togliere piuttosto che aggiungere. 

La ricerca del giusto minimalismo non solo prettamente architettonico, ma anche professionale e gestionale che vuole sussurrarci di smetterla di aggiungere e iniziare a togliere per avere il giusto equilibrio e trarre il massimo dalla nostra professione.

Questo insegnamento ci è stato dato da Matthew McConaughey che vide qualche anno fa decollare la sua carriera dopo aver scoperto l’importanza di dire “NO!”

Dalle sue stesse affermazioni Matthew raccontò:
<Ho girato un sacco di film solo perché volevo recitare e avevo bisogno di pagare l’affitto> …

<«Poi ho cominciato un processo di selezione per eliminazione: non sapevo ancora cosa volevo di preciso, però sapevo benissimo quello che non volevo.>…

<sono passati 18 mesi prima che arrivasse la prima offerta significativa.>…

Tra i primi ad accorgersi del cambiamento ci fu Steven Soderbergh, che nel 2012 gli offrì il ruolo di spregiudicato spogliarellista in Magic Mike (transizione necessaria per evolvere da surfista romantico in attore di concetto). Quindi ci sono stati il cameo (valso una nomination) in The wolf of Wall street, la prima stagione di True detective – «L’ho adorato» – e la consacrazione definitiva: con Dallas Buyers club con cui vinse tutto, dall’Oscar in giù…

 

Questa illuminante testimonianza ci fa capire che evitare di buttarci in alcuni progetti/commissioni, (seppur apparentemente più o meno redditizie) permetterebbe di rendere più qualitativa la cosa professionalmente più preziosa che abbiamo, ovvero la nostra reputazione percepita in un determinato campo. 

Questa percezione per essere elevata necessita di qualità piuttosto che quantità, per questo motivo nessun progetto o committente dovrebbe prendere la nostra attenzione e farci accettare un determinato ruolo, qualora la qualità sia palesemente scadente. 

Nessuna retribuzione economica dovrebbe sopperire questa carenza di qualità (e spesso tali “avventure professionali” si rivelano alla fine scarse anche sotto il profilo economico)

Quindi qualità prima di quantità, reputazione prima del semplice tornaconto economico…perché come disse Frank Lloyd Wright, per fare una grande opera architettonica prima di tutto serve un “grande” committente…

e lo diceva anche Nietzsche:< …le cose grandi ai grandi, gli abissi ai profondi, le finezze ai sottili e le rarità ai rari…> … e noi siamo i soli artefici di quello che vogliamo e soprattutto meritiamo di diventare!

 

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La Triade Vitruviana e la Triade Dahliesca

[riprende i temi del post: NON COPIARE LE RIVISTE, COPIA LA NATURA del 25-03-2022]

Parliamo di metodo di progettazione, domandandoci e chiedendoci cosa non vada nel criterio adottato dai progettisti contemporanei (anziani o giovani che siano), divenuto tale da sfornare forme ed architetture identiche e in genere sterili, imprescindibilmente dalla funzione e dal contesto che dovrà ospitarle.

Mancano le idee?
Noi crediamo che la mancanza di idee non sia il problema principale.
Certo ogni progettista può vantare più o meno capacità nella composizione di un nuovo progetto, e (purtroppo) l’eclettismo della forma è diventato l’unico modo per valutare un architetto;
ma questo, a nostro avviso, non è la problematica che limita il prodotto architettonico oggi!

Può essere colpa della grande diffusione di riferimenti architettonici?
Questo è sicuramente un problema, ma non il problema.
La facilità di consultazione delle riviste, e la loro grande diffusione oggi, è sicuramente limitante per molti.
Troppe informazioni raccogliamo, così che, quando tocca a noi progettare, automaticamente rivomitiamo le stesse forme e gli stessi concetti che abbiamo assimilato con la grande diffusione di riviste e immagini di progetti di altre persone.
Lasciamo perdere i consigli di alcuni nostri ignavi professori universitari, che ci imponevano di portare riferimenti architettonici prima di progettare.
Abbandoniamo l’idea che un progetto nuovo debba nascere per forza consultando progetti con funzioni simili.
I progetti non saranno mai simili!
Come possiamo essere così superficiali da credere che un progetto in un contesto differente dal nostro, in un differente paese con dissimile cultura dei fruitori e con problematiche e punti di forza tipiche di ogni realtà sociale, possano andare bene anche per la nostra situazione?
Chiudiamo allora a doppia mandata l’armadietto delle riviste, almeno tre giorni prima di iniziare ad ideare un nuovo progetto.

Detto questo si dovrebbe aver intuito quale è il problema che affligge oggi il mondo architettonico.
La piaga principale a nostro avviso è la mancanza di sensibilità!

La mancanza di sensibilità limita molto, allontana il progettista dal vero metodo progettuale, che dovrebbe apprendere prima di progettare e consisterebbe nel ragionamento e nella pianificazione ottimale delle tre qualità a cui l’opera architettonica, alla fine  dovrà rispondere:
– ESALTAZIONE DELLA FUNZIONE (che innalzerebbe l’essere umano fruitore)
– FUSIONE CON IL CONTESTO (rispetto della natura)
– LUNGIMIRANZA FUTURA (La previsione di come l’opera evolverà nel futuro)

Questo dovrebbe essere a nostro avviso l’inizio; poi da questo studio precipuo, si vedranno le qualità architettoniche, in grado di sviluppare questi tre punti nel modo migliore.

Vitruvio osservava che l’architettura deve soddisfare tre categorie (triade vitruviana):
– Firmitas (Solidità)
– Utilitas (Funzione)
– Venustas (Bellezza)

Vitruvio aveva ragione, ma non ci aveva indicato la via per il loro raggiungimento.

L’Utilitas è colei che rende l’uomo felice di godere dell’opera architettonica, per questo l’utilitas si raggiunge con l’esaltazione della funzione, quindi l’attenzione progettuale a colui che godrebbe dell’opera, l’attenzione ai fruitori, l’amore per l’essere umano.

La Venustas è la bellezza, ma la bellezza è la proporzione e la proporzione è il rispetto delle forme e degli equilibri che l’uomo ha imparato ad osservare nella natura.
La bellezza è quindi il rispetto della natura, il contesto che non viene sconvolto, l’opera architettonica che prima di nascere chiede il permesso di esistere, e si interroga (assieme al suo progettista) se un determinato contesto, sarebbe sconvolto o migliorato dalla costruzione di un determinato progetto.

La Firmitas infine, è la solidità; ma la vera importanza della solidità non è data solo dalla longevità statica dell’edificio. La solidità è data dalla lungimirante  pianificazione  del progetto.
La solidità è la perpetua idoneità del progetto al contesto, per decenni, per secolo, per sempre.


Utilitas, Venustas e Firmitas che si raggiungerebbero con la devozione all’essere umano, alla natura e al futuro dell’opera, sarebbero il giusto inizio del metodo progettuale.
L’architettura dovrebbe essere questo, il resto sono solo copie a volte mal riuscite, di opere poco architettoniche e molto scultoree di archistar che un bel giorno hanno deciso di fare arte autoreferenziale ed auto-rappresentativa (come è tipico e giusto che faccia l’arte), che non entrava in un museo!

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Il Veleno dell’Architettura

(Quello che poteva essere e non è stato)

Zaha Hadid consigliava che per avere una vita felice bisognava tenersi lontani dalla professione dell’architetto…
Bjarke Ingels riconosceva il paradosso dell’architetto, a cui nessuno affiderebbe una vera costruzione architettonica se non si è giá costruito architettura…
Ancor prima il grande Frank Lloyd Wright svelava che l’unico modo per fare una buona architettura era avere un buon budget e “carta bianca”…

La verità è che oggi il “titolo” di architetto chiunque è in grado di guadagnarselo,  MA il vero status di architetto non si raggiunge senza aver imparato a digerire l’inferno dell’edilizia in cui precipitiamo ogni giorno…
Un VELENO che in dosi costanti e decenni di indigestioni diventa alla lunga un antidoto…

La realtà è che di progetti architettonici veri (non edilizia che è altra cosa) solo una percentuale tra il 5 e il 10 % vede la luce…e di quel 5-10% solo un 5-10% viene realizzato come era stato concepito…(stime non mie ma di Mr B.I.G. sopra citato).
Questo dovrebbero dire il primo giorno che si entra in una facoltà di architettura.
Bisognerebbe saperlo prima di godere dei progetti altrui mal riusciti, e bisogna saperlo comunque prima di mettersi a tavolino a studiare la prossima forma, il prossimo progetto, che puntualmente verrà modificato e declassato a semplice opera edilizia, da qualcuno (committente, ingegnere, impresa) che ha le SUE leggittime ragioni esecutive.

Ma questo è anche quello che distingue chi fa edilizia appunto, da chi cerca di fare architettura…

Se non si è delusi da quello che alla fine viene costruito, vuol dire: o essersi piegati definitivamente alla professione di progettista edile, o aver battuto il veleno dell’architettura. A volte la delusione è forte, a volte è minima…ma senza delusione non c’è evoluzione…

Beati quelli che vedono solo edilizia più o meno riuscita e valutano tutto in base alla quantità di metri quadri di un’opera..e non sentono il sapore dell’architettura…si risparmiano l’inconsapevole coprofagia in cui tutti siamo ormai destinati.

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Non copiare le riviste, copia la Natura

Quello che oggi insegnano nelle università di architettura, prima di iniziare l‘attività di composizione architettonica (o di design),  è riassumibile dalla serie di click che il mouse compie per visualizzare sul pc il primo sito utile di raccolta di immagini di architetture più o meno realizzate, che servirebbero (a detta loro) ad offrirci, l’unico impulso di ispirazione progettuale.

Il “riferimento architettonico” lo chiamano, per noi da sempre rappresenta il principale contraccettivo di idee nella pratica architettonica.

L’insufficienza di idee che accomuna la grande maggioranza dei professori universitari, e dei loro assistenti, si riversa molto spesso sui discenti, che per ovvi motivi vengono considerati sprovvisti della minima visione ideologica, e vengono costretti purtroppo a scopiazzare modelli architettonici che il più delle volte hanno anche l’aggravante di essere delle prometeiche opere di archistar.

Il risultato è  l’appiattimento ideologico progettuale degli studenti, e la conseguente omologazione dei progetti che scaturiscono da esso, così che il sedicente professore, circondato dagli iloti assistenti, il giorno dell’esame è costretto a valutare gli allievi tramite metodi risibili di valutazione, come ad esempio: la qualità grafica degli elaborati, la precisione della realizzazione dei modellini tridimensionali o il più delle volte dall’avidità della leccata di culo…(ops, questo cancelliamolo)  in base alla capacità di asservimento dello studente in esame.

Dovrebbero prima di tutto bandire le riviste nelle università; poi bloccare nelle linee interne accademiche i siti dove compiere ricerche dei “riferimenti architettonici”; ed infine selezionare al meglio i professori da porre nei laboratori di progettazione architettonica.
Le riviste lasciamole alle allampanate signore di mezza età il cui hobbie preferito è improvvisarsi interior designer e restylizzare la casa compulsivamente ogni primavera.
Nelle linee intranet accademiche bloccate oltre ai siti di pornografia, anche i siti di sodomia architettonica… E i professori sceglieteli per merito non per “successione programmata”, nemmeno appartenessero a dinastie faraoniche.

L’architettura è una scienza ed un’arte allo stesso tempo. A differenza di quello che insegnavano alcuni celebri rappresentanti  del movimento moderno, non è di facile comprensione e di facile esecuzione.
Di certo per rendere agevole la pratica architettonica il metodo migliore non è la sterile imitazione e il conseguente adattamento di forme già progettate da altri architetti, in contesti differenti e con funzioni distinte, come cercano di insegnarci questi nocivi docenti.
Non vogliamo generalizzare e non considerare le pur numerose eccezioni.
Esistono molti professori che, non solo rispettano il loro importantissimo lavoro, ma riescono anche ad essere d’ispirazione agli studenti.
Purtroppo però, come spesso avviene in questa nazione, la parte positiva è in netta minoranza rispetto all’inettitudine e alla inidoneità della maggioranza.

E allora quale sarebbe il giusto approccio iniziale all’attività architettonica?
La risposta potrebbe essere ampia, troppo discorsiva e quindi (in questo contesto) infruttuosa; di certo escludiamo assolutamente l’azione di imitazione ai modelli esistenti.
In questo Journal, possiamo solo delineare la nostra analisi per la quale:
Ogni progetto ha una sua funzione.
Ogni progetto ha un suo contesto.
Ogni progetto ha un contesto che con il tempo modifica la sua conformazione.
Ogni progetto quindi è differente da un altro, e non esisteranno mai progetti in contesti uguali e con funzioni identiche. L’architettura di imitazione ha saputo solo generare architetture infelici e malsane.
Il futuro sarà l’architettura della personalizzazione.
Le variabili progettuali sono tante e a volte troppe, il percorso progettuale è lungo e articolato; ma se proprio si è costretti ad imitare qualcosa, l’unico modello da prendere come  spunto resta sempre e solo la natura.

Se non si riesce ad avere un’inventiva fruttuosa e benefica, commista ad un metodo progettuale positivo; copiando la natura, per lo meno si limiterebbero di tanto gli errori che giorno per giorno, vengono riproposti in ogni progetto concepito per imitazione.


p.s.: E allora che fine dovrebbero fare le riviste di settore???… oltre che guarnire il portariviste dell’eburneo bagno delle signore di cui sopra… Potrebbero benissimo essere utilizzate dai professionisti (architetti e designer); ma non prima di iniziare una progettazione; semmai successivamente, nelle fasi finali di rifinitura e di perfezionamento del progetto finito architettonico.


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Vitruvio e la Personalizzazione Architettonica

Abbiamo spesso criticato lo stile modernista e i costanti richiami allo standard brutale.
Abbiamo spesso argomentato perché oggi, più che in passato, l’architettura ha bisogno di una ricerca  che risponda alla customizzazione, piuttosto che ai modelli industriali preconfezionati.

Oggi ribadiamo tutto ciò chiamando in causa Vitruvio e il suo De Architettura, analizzando un piccolo ma significativo passo del suo trattato (I Libro).

Quando Vitruvio parla delle sei categorie dell’architettura, esponendole una per una in modo dettagliato, si sofferma sull’ultima di queste, la distributio, dove palesemente  espone la sua visione architettonica in tema di personalizzazione.
Si afferra bene tra le righe di questo estratto del trattato, la sua idea nonostante i restanti libri non siano sempre chiari, criticati in passato da Leon Battista Alberi principalmente per il pedestre registro linguistico.

Il criterio di distributio è per noi fondamentale per ribadire la linea anti standard che caratterizzava nella gloriosa antichità, le opere che noi contempliamo ieraticamente oggi.

L’ultima frase riassume tutta la visione vitruviana riguardo la personalizzazione, che per noi è una caratteristica fondamentale nella progettazione architettonica; trascrivendo:
“Insomma occorre saper destinare a ciascuno il tipo di abitazione che meglio risponda ai suoi bisogni.”

Noi lo ripeteremo all’infinito che la diversità del contesto dove sorge l’opera architettonica (semplice residenza o opera pubblica che sia), e le diverse caratteristiche dei fruitori dell’edifico, implicano una progettazione che mai potrà essere creata in maniera seriale, con l’intento di accontentare tutti, perché gli ultimi decenni ci mostrano che accontentare tutti vuol dire soddisfare nessuno!
Gli unici che traggono profitto dalla pratica architettonica standardizzata sono gli stessi progettisti (architetti, ingegneri ecc) e i costruttori, che riescono a piazzare un prodotto con scarsa qualità e una superficiale ricerca architettonica.

Non possiamo e non dobbiamo puntare a piazzare e vendere le opere architettoniche standardizzate come fossero partite alimentari scadute, come ci insegnano le università e come ci hanno insegnato i maestri modernisti.

L’attuale crisi architettonica e urbanistica, delle periferie è stata generata principalmente da questo superficialismo architettonico.
Conoscere non solo le opere dell’antichità (viaggiando e visitandole direttamente) è importante, ma è altrettanto importante conoscere il criterio che le ha generate, così da donare ai nostri posteri le stesse bellezze che oggi contempliamo grazie ai nostri antenati.

 

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James Stevens Curl Docet

<… gli architetti raramente leggono: guardano solo immagini seducenti e assorbono slogan…> [Prof. James Stevens Curl_ Prefazione al libro: “Architettura e Demolizione” di Nikos Salingaros]

tendiamo in genere ad allungare troppo i nostri articoli…oggi direi che non c’è altro da aggiungere!


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Il Decostruttivismo ha un padre

Cosa si può dire ai fanatici del presente e principale paradigma quando pretendono che noi dovremmo accettare il fatto che il Decostruttivismo sia la contrapposizione al Modernismo, dopo che quest’ultimo ha dominato la scena stilistica architettonica per decenni?
Come pretendono che noi approviamo queste castronerie, quando uno dei fautori del Decostruttivismo è stato lo stesso fondatore del Movimento Moderno (Philips Johnson)?
E’ dura pretendere di creare un modello stilistico innovativo che domini per un altro secolo (dopo il “secolo modernista”)  lo scenario architettonico, oltretutto con l’intento di far credere che sia il sostituto invece che l’evoluzione di quest’ultimo.
Il Professore James Stevens Curl nella prefazione al libro “Antiarchitettura e Demolizione” di N. Salingaros, metaforizza il caso del Decostruttivismo con la fiaba danese “I vestiti nuovi dell’imperatore” scrive:
“ … “L’imperatore è nudo” è un vecchio adagio ma, nel triste caso del Decostruttivismo, è assolutamente adatto, dato che questo stile non è veramente nient’altro che modernismo in una nuova veste…”
Al di là del richiamo alla fiaba, il concetto di definire il decostruttivismo come modernismo in una nuova veste, non è solo filosoficamente giusto, ma è sotto i nostri occhi.
Noi a differenza del Prof. Curl vogliamo essere più diretti.
Per capire il concetto, basti spogliare letteralmente la maggior parte delle opere decostruttiviste dei loro involucri, più o meno tecnologici, quel che vedrete nella maggioranza dei casi,  è una pura opera modernista; oppure tradurre mentalmente i suggestivi concept che mostrano la generazione formale dell’opera, per notare che il più delle volte quest’ultima nasce da una tipica forma modernista alienata secondo qualche modificatore che ci offrono i numerosi programmi di calcolo tridimensionale.

James Stevens Curl

Andiamo però più a fondo…
Charles Jencks, noto architetto e commentatore architettonico, ha promosso per primo in maniera diretta e senza mezzi termini, l’architettura di  Peter Eisenman, Frank Gehry e Daniel Libeskind “Nuovo Paradigma Architettonico”.
Jencks oltre a dire ciò, crea legami tra il decostruttivismo e l’ambito scientifico, tirando in ballo parole come “emersione”, “frattali”e “complessità”, cercando legami (che in appositi articoli approfondiremo) con la scienza, ma che non serve scomodare uno scienziato per reputarli inadatti ai suoi scopi di promozione del  nuovo paradigma che di nuovo ha ben poco.
In realtà è noto che gli architetti decostruttivisti  abbiano fondato il loro modello su fondamenta fragili, cioè le pseudo-filosofie nichiliste dei filosofi decostruttivisti, su tutti  Jacques Derrida.

Charles Jencks

Tutte le ombre del Decostruttivismo, le approfondiremo in un capitolo a parte, per non andare  fuori tema e per non appesantire troppo questa pagina di Journal.
La cosa certa è che siamo sicuri di dire che il Decostruttivismo è il figlio del Modernismo, anche se siamo di fronte ad uno dei pochi casi isolati di un figlio che non riconosca il padre.
Oggi sappiamo benissimo che un prodotto commerciale vende più per la sua confezione che per la qualità del prodotto, allo stesso modo ha operato ed opera  oggi il Decostruttivismo, che ha pensato di vendere per nuovo un paradigma, seppur contenente un prodotto ormai raffermo.
Questa tecnica ad esempio si usa oggi per reinserire nel mercato profumi  che non hanno avuto successo in passato, rimasti in giacenza, si ridisegna la confezione e il flacone, si fanno passare per nuovi, ma la realtà è che viene venduta sempre la solita roba, che senza quella innovativa apparenza nessuno avrebbe nemmeno guardato.

Noi crediamo che il Modernismo abbia avuto un grande impulso innovatore, seppur mosso da motivi non del tutto inclini ai bisogni dell’uomo e alla natura. Di certo non si può negare la sua forza stilistica, e noi seppur spesso lo critichiamo, non ce la sentiamo di rinnegarlo totalmente come modello, che in alcune situazioni può avere addirittura la sua giusta applicazione. Il decostruttivismo invece, quando è creato come modernismo  in una nuova veste, non ha senso di esistere e lessicalmente dovrebbe essere definito al massimo come neo-modernismo.
Per questo reputiamo fandonie tutte quelle storie che ci raccontano gli archistar. Circuire gli ascoltatori ignari e ignoranti quando si è costruita una semplice opera modernista e la si è rivestita con il più strano e costoso involucro che la tecnologia mette a disposizione, non è ne decostruzionismo e nemmeno architettura, quella determinata pratica è solo una truffa ideologica ed economica, all’intelletto e alle tasche dei committenti prima e dei fruitori dell’”opera architettonica” poi.


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